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Archivio per June, 2009

Lettera aperta di un prete al Cardinale Bagnasco

SENZA LA PROFEZIA, RIMANE LA COMPLICITÀ

Lettera aperta al cardinale Bagnasco

Egregio sig. Cardinale,

viviamo nella stessa città e apparteniamo alla stessa Chiesa: lei vescovo, io prete. Lei è anche capo dei vescovi italiani, dividendosi al 50% tra Genova e Roma. A Genova si dice che lei è poco presente alla vita della diocesi e probabilmente a Roma diranno lo stesso in senso inverso. E’ il destino dei commessi viaggiatori e dei cardinali a percentuale. Con questo documento pubblico, mi rivolgo al 50% del cardinale che fa il Presidente della Cei, ma anche al 50% del cardinale che fa il vescovo di Genova perché le scelte del primo interessano per caduta diretta il popolo della sua città.

Ho letto la sua prolusione alla 59a assemblea generale della Cei (24-29 maggio 2009) e anche la sua conferenza stampa del 29 maggio 2009. Mi ha colpito la delicatezza, quasi il fastidio con cui ha trattato - o meglio non ha trattato - la questione morale (o immorale?) che investe il nostro Paese a causa dei comportamenti del presidente del consiglio, ormai dimostrati in modo inequivocabile: frequentazione abituale di minorenni, spergiuro sui figli, uso della falsità come strumento di governo, pianificazione della bugia sui mass media sotto controllo, calunnia come lotta politica.

Lei e il segretario della Cei avete stemperato le parole fino a diluirle in brodino bevibile anche dalle novizie di un convento. Eppure le accuse sono gravi e le fonti certe: la moglie accusa pubblicamente il marito presidente del consiglio di «frequentare minorenni», dichiara che deve essere trattato «come un malato», lo descrive come il «drago al quale vanno offerte vergini in sacrificio». Le interviste pubblicate da un solo (sic!) quotidiano italiano nel deserto dell’omertà di tutti gli altri e da quasi tutta la stampa estera, hanno confermato, oltre ogni dubbio, che il presidente del consiglio ha mentito spudoratamente alla Nazione e continua a mentire sui suoi processi giudiziari, sull’inazione del suo governo e sulla sua pedofilia. Una sentenza di tribunale di 1° grado ha certificato che egli è corruttore di testimoni chiamati in giudizio e usa la bugia come strumento ordinario di vita e di governo. Eppure si fa vanto della morale cattolica: Dio, Patria, Famiglia. In una tv compiacente ha trasformato in suo privato in un affaire pubblico per utilizzarlo a scopi elettorali, senza alcun ritegno etico e istituzionale.

Lei, sig. Cardinale, presenta il magistero dei vescovi (e del papa) come garante della Morale, centrata sulla persona e sui valori della famiglia, eppure né lei né i vescovi avete detto una parola inequivocabile su un uomo, capo del governo, che ha portato il nostro popolo al livello più basso del degrado morale, valorizzando gli istinti di seduzione, di forza/furbizia e di egoismo individuale. I vescovi assistono allo sfacelo morale del Paese ciechi e muti, afoni, sepolti in una cortina di incenso che impedisce loro di vedere la «verità» che è la nuda «realtà». Il vostro atteggiamento è recidivo perché avete usato lo stesso innocuo linguaggio con i respingimenti degli immigrati in violazione di tutti i dettami del diritto e dell’Etica e della Dottrina sociale della Chiesa cattolica, con cui il governo è solito fare i gargarismi a vostro compiacimento e per vostra presa in giro. Avete fatto il diavolo a quattro contro le convivenze (Dico) e le tutele annesse, avete fatto fallire un referendum in nome dei supremi «principi non negoziabili» e ora non avete altro da dire se non che le vostre paroline sono «per tutti», cioè per nessuno.

Il popolo credente e diversamente credente si divide in due categorie: i disorientati e i rassegnati. I primi non capiscono perché non avete lesinato bacchettate all’integerrimo e cattolico praticante, Prof. Romano Prodi, mentre assolvete ogni immoralità di Berlusconi. Non date forse un’assoluzione previa, quando vi sforzate di precisare che in campo etico voi «parlate per tutti»? Questa espressione vuota vi permette di non nominare individualmente alcuno e di salvare la capra della morale generica (cioè l’immoralità) e i cavoli degli interessi cospicui in cui siete coinvolti: nella stessa intervista lei ha avanzato la richiesta di maggiori finanziamenti per le scuole private, ponendo da sé in relazione i due fatti. E’ forse un avvertimento che se non arrivano i finanziamenti, voi siete già pronti a scaricare il governo e l’attuale maggioranza che sta in piedi in forza del voto dei cattolici atei? Molti cominciano a lasciare la Chiesa e a devolvere l’8xmille ad altre confessioni religiose: lei sicuramente sa che le offerte alla Chiesa cattolica continuano a diminuire; deve, però, sapere che è una conseguenza diretta dell’inesistente magistero della Cei che ha mutato la profezia in diplomazia e la verità in servilismo.

I cattolici rassegnati stanno ancora peggio perché concludono che se i vescovi non condannano Berlusconi e il berlusconismo, significa che non è grave e passano sopra all’accusa di pedofilia, stili di vita sessuale con harem incorporato, metodo di governo fondato sulla falsità, sulla bugia e sull’odio dell’avversario pur di vincere a tutti i costi. I cattolici lo votano e le donne cattoliche stravedono per un modello di corruttela, le cui tv e giornali senza scrupoli deformano moralmente il nostro popolo con «modelli televisivi» ignobili, rissosi e immorali.

Agli occhi della nostra gente voi, vescovi taciturni, siete corresponsabili e complici, sia che tacciate sia che, ancora più grave, tentiate di sminuire la portata delle responsabilità personali. Il popolo ha codificato questo reato con il detto: è tanto ladro chi ruba quanto chi para il sacco. Perché parate il sacco a Berlusconi e alla sua sconcia maggioranza? Perché non alzate la voce per dire che il nostro popolo è un popolo drogato dalla tv, al 50% di proprietà personale e per l’altro 50% sotto l’influenza diretta del presidente del consiglio? Perché non dite una parola sul conflitto d’interessi che sta schiacciando la legalità e i fondamentali etici del nostro Paese? Perché continuate a fornicare con un uomo immorale che predica i valori cattolici della famiglia e poi divorzia, si risposa, divorzia ancora e si circonda di minorenni per sollazzare la sua senile svirilità? Perché non dite che con uomini simili non avete nulla da spartire come credenti, come pastori e come garanti della morale cattolica? Perché non lo avete sconfessato quando ha respinto gli immigrati, consegnandoli a morte certa? Non è lo stesso uomo che ha fatto un decreto per salvare ad ogni costo la vita vegetale di Eluana Englaro? Non siete voi gli stessi che difendete la vita «dal suo sorgere fino al suo concludersi naturale»? La vita dei neri vale meno di quella di una bianca? Fino a questo punto siete stati contaminati dall’eresia della Lega e del berlusconismo? Perché non dite che i cattolici che lo sostengono in qualsiasi modo, sono corresponsabili e complici dei suoi delitti che anche l’etica naturale condanna? Come sono lontani i tempi di Sant’Ambrogio che nel 390 impedì a Teodosio di entrare nel duomo di Milano perché «anche l’imperatore é nella Chiesa, non al disopra della Chiesa». Voi onorate un vitello d’oro.

Io e, mi creda, molti altri credenti pensiamo che lei e i vescovi avete perduto la vostra autorità e avete rinnegato il vostro magistero perché agite per interesse e non per verità. Per opportunismo, non per vangelo. Un governo dissipatore e una maggioranza, schiavi di un padrone che dispone di ingenti capitali provenienti da «mammona iniquitatis», si è reso disposto a saldarvi qualsiasi richiesta economica in base al principio che ogni uomo e istituzione hanno il loro prezzo. La promessa prevede il vostro silenzio che - è il caso di dirlo - è un silenzio d’oro? Quando il vostro silenzio non regge l’evidenza dell’ignominia dei fatti, voi, da esperti, pesate le parole e parlate a suocera perché nuora intenda, ma senza disturbarla troppo: «troncare, sopire … sopire, troncare».

Sig. Cardinale, ricorda il conte zio dei Promessi Sposi? «Veda vostra paternità; son cose, come io le dicevo, da finirsi tra di noi, da seppellirsi qui, cose che a rimestarle troppo … si fa peggio. Lei sa cosa segue: quest’urti, queste picche, principiano talvolta da una bagattella, e vanno avanti, vanno avanti… A voler trovarne il fondo, o non se ne viene a capo, o vengon fuori cent’altri imbrogli. Sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire» (A. Manzoni, Promessi Sposi, cap. IX). Dobbiamo pensare che le accuse di pedofilia al presidente del consiglio e le bugie provate al Paese siano una «bagatella» per il cui perdono bastano «cinque Pater, Ave e Gloria»? La situazione è stata descritta in modo feroce e offensivo per voi dall’ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, che voi non avete smentito: «Alla Chiesa molto importa dei comportamenti privati. Ma tra un devoto monogamo [leggi: Prodi] che contesta certe sue direttive e uno sciupa femmine che invece dà una mano concreta, la Chiesa dice bravo allo sciupa femmine. Ecclesia casta et meretrix» (La Stampa, 8-5-2009).

Mi permetta di richiamare alla sua memoria, un passo di un Padre della Chiesa, l’integerrimo sant’Ilario di Poitier, che già nel sec. IV metteva in guardia dalle lusinghe e dai regali dell’imperatore Costanzo, il Berlusconi cesarista di turno: «Noi non abbiamo più un imperatore anticristiano che ci perseguita, ma dobbiamo lottare contro un persecutore ancora più insidioso, un nemico che lusinga; non ci flagella la schiena ma ci accarezza il ventre; non ci confisca i beni (dandoci così la vita), ma ci arricchisce per darci la morte; non ci spinge verso la libertà mettendoci in carcere, ma verso la schiavitù invitandoci e onorandoci nel palazzo; non ci colpisce il corpo, ma prende possesso del cuore; non ci taglia la testa con la spada, ma ci uccide l’anima con il denaro» (Ilario di Poitiers, Contro l’imperatore Costanzo 5).

Egregio sig. Cardinale, in nome di quel Dio che lei dice di rappresentare, ci dia un saggio di profezia, un sussurro di vangelo, un lampo estivo di coerenza di fede e di credibilità. Se non può farlo il 50% di pertinenza del presidente della Cei «per interessi superiori», lo faccia almeno il 50% di competenza del vescovo di una città dove tanta, tantissima gente si sta allontanando dalla vita della Chiesa a motivo della morale elastica dei vescovi italiani, basata sul principio di opportunismo che è la negazione della verità e del tessuto connettivo della convivenza civile.

Lei ha parlato di «emergenza educativa» che è anche il tema proposto per il prossimo decennio e si è lamentato dei «modelli negativi della tv». Suppongo che lei sappia che le tv non nascono sotto l’arco di Tito, ma hanno un proprietario che è capo del governo e nella duplice veste condiziona programmi, pubblicità, economia, modelli e stili di vita, etica e comportamenti dei giovani ai quali non sa offrire altro che la prospettiva del «velinismo» o in subordine di parlamentare alle dirette dipendenze del capo che elargisce posti al parlamento come premi di fedeltà a chi si dimostra più servizievole, specialmente se donne. Dicono le cronache che il sultano abbia gongolato di fronte alla sua reazione perché temeva peggio e, se lo dice lui che è un esperto, possiamo credergli. Ora con la benedizione del vostro solletico, può continuare nella sua lasciva intraprendenza e nella tratta delle minorenni da immolare sull’altare del tempio del suo narcisismo paranoico, a beneficio del paese di Berlusconistan, come la stampa inglese ha definito l’Italia.

Egregio sig. Cardinale, possiamo sperare ancora che i vescovi esercitino il servizio della loro autorità con autorevolezza, senza alchimie a copertura dei ricchi potenti e a danno della limpidezza delle verità come insegna Giovanni Battista che all’Erode di turno grida senza paura per la sua stessa vita: «Non licet»? Al Precursore la sua parola di condanna costò la vita, mentre a voi il vostro «tacere» porta fortuna.

In attesa di un suo riscontro porgo distinti saluti.

Genova 31 maggio 2009

Paolo Farinella, prete

di Paolo Farinella - da domani.arcoiris.tv

Parole sante, mi viene da dire. E, dato che ormai la Chiesa non dà nessuna importanza alla voce di chi è “fuori”, speriamo che si smuovano le coscienze dei credenti. E poi tutti a casa, grazie.

La scelta dei nomi dei neonati nigeriani

Ann, Nigeria, parla della scelta del nome nel suo Paese - dal libro Sopra il tavolo di cucina, donne che intrecciano storie.
Può essere divertente, ma anche illuminante, scoprire che esistono posti in cui una stessa persona può avere fino a dieci nomi…

Dopo 7 giorni dal parto c’è un grande incontro con tutta la famiglia (genitori, nonni, bisnonni, zii, cugini, …) per dare il benvenuto alla creatura.
In quell’occasione, dopo i canti, ogni componente dà un nome al neonato. Se è maschio inizia il nonno paterno; se è femmina dipende. Per ultimi, i genitori scelgono il nome da mettere sui documenti, ma non è detto che nella vita quotidiana il bimbo venga in seguito chiamato così.
C’è inoltre il nome del villaggio che è quello più antico e importante.
Comunque ognuno lo chiama come vuole; la stessa persona lo può chiamare in un modo e dopo un’ora in un altro. A Benin City, poi, non si danno meno di dieci nomi.
Per esempio, Osareme (Dio me l’ha donata) è il nome che mi ha dato mio papà, ma io mi chiamo anche Nowogomema (chi penserà bene di me sarà da me benedetto) e anche Gift (regalo, in inglese) e poi diversi soprannomi scherzosi che significano zanzara, cocomero, ecc…
La mia amica si chiama Rosemary, ma anche Nadiwa (io aspetto tutti e loro mi desiderano). Non sa se ne ha altri perché se gli anziani non te li dicono quando sei grande qualche nome si perde.
Oppure ancora Gladis (vittoria) è anche Omadane (mia figlia è solo mia ed è preziosa).
Conosco una ragazza che ne ha ancora di più e se li ricorda tutti: Elizabeth, Ebamade (non sei caduta in basso), Ivie (preziosa), Edde (non cadrà mai), Ossato (mi chiamano tutti), Eyabo (nessuno è contento di essere povero), Mencely (ruota della macchina, cioè cicciona).

Saramago: Fino a quando, Berlusconi, abuserai della nostra pazienza?

di José Saramago, da cuaderno.josesaramago.org, traduzione di Laura Franza

Duemila e cinquanta anni fa, giorno più giorno meno, in un’ora simile a questa, il buon Cicerone stava gridando la sua indignazione nel senato di Roma o nel Foro romano: “Fino a quando, Catilina, abuserai della nostra pazienza?”, e chiedeva una volta di più al vigliacco cospiratore che aveva voluto ucciderlo per impadronirsi di un potere al quale non aveva alcun diritto. La Storia è tanto prodiga, tanto generosa, che oltre a darci eccellenti lezioni sull’attualità di alcuni eventi d’altri tempi, ci lascia anche, per nostro uso, alcune parole, alcune frasi che, per una qualche ragione, hanno finito per gettare radici nella memoria dei popoli. La frase che ho citato prima, fresca, vibrante, come se fosse stata pronunciata un attimo fa, è senza dubbio tra quelle. Cicerone fu un grande oratore, un tribuno di enormi mezzi espressivi, però è interessante notare come in questo caso abbia preferito utilizzare termini tra i più comuni, che avrebbero potuto uscire dalla bocca di una madre che rimprovera il figlio irrequieto. Con l’enorme differenza che quel figlio di Roma, quel tale Catilina, era un mascalzone della peggior specie, sia come uomo che come politico.
La Storia d’Italia per qualcuno è sorprendente. E’ un lunghissimo rosario di geni, pittori, scultori o architetti, musicisti o filosofi, scrittori o poeti, miniatori o artisti, un numero senza fine di gente sublime che rappresenta quanto di meglio l’umanità ha pensato, immaginato, fatto. Non mancano certo le catiline di caratura più o meno forte, però nessun paese ne è esente, è una lebbra che tocca a tutti. Il Catilina di oggi, in Italia, si chiama Berlusconi. Non ha bisogno di dare la scalata al potere, perché è già suo, ha abbastanza denaro per comprare tutti i complici di cui ha bisogno, compresi giudici, deputati e senatori. E’ riuscito nell’impresa di dividere il popolo italiano in due parti: quelli cui piacerebbe essere come lui e quelli che già lo sono. Adesso promuove l’approvazione di leggi discriminatorie in modo assoluto contro l’immigrazione illegale, si inventa pattuglie di cittadini per collaborare con la polizia nella repressione fisica dei migranti senza documenti e, colmo dei colmi, proibisce ai figli di padri immigrati di essere iscritti nei registri civili. Catilina, quello storico, non avrebbe fatto di meglio.
Dicevo prima che la Storia d’Italia per qualcuno è sorprendente. Per esempio, sorprende che nessuna voce italiana (almeno che io sappia) abbia ripreso, adattandole ma di poco, le parole di Cicerone: “Fino a quando, Berlusconi, abuserai della nostra pazienza?”.
Bisognerebbe provarci, magari si avrà qualche risultato e magari, per questo o per qualche altro motivo, l’Italia tornerà a sorprenderci.

(15 maggio 2009)

Aggressione a Mohamed Ba

Ho visto per la prima volta Mohamed Ba giusto due settimane prima della sua aggressione. Qui a Baggio c’è stato un evento molto significativo di questi tempi, “maggio a baggio”, una giornata dedicata ai temi della pace, della non-violenza e dei diritti umani.

Ba ha regalato uno spettacolo toccante, intelligente e coinvolgente a un pubblico di bambini e adulti che lo ha ascoltato con interesse e stupore emozionato.

E’ bello davvero, bello e affascinante Mohamed Ba. Domenica qualcuno lo ha avvicinato e immediatamente accoltellato. Così. senza un apparente motivo.

Comunicato Stampa

La scuola di Settimo Milanese esprime la propria convinta solidarietà a Mohamed Ba, vittima di una brutale e vile aggressione.
Ba opera da diversi anni nelle nostre scuole , con passione e competenza, all’interno di un percorso di intercultura che, tramite la conoscenza di culture altre, vuole favorire negli alunni comportamenti positivi di accoglienza e di tolleranza in contrapposizione al pregiudizio ed alla diffidenza nei confronti degli “stranieri”.
Il personale, i bambini e le bambine vogliono esprimere  la loro amicizia a Ba continuando a percorrere la difficile strada della pace, della solidarietà e della conoscenza.

il dirigente scolastico
Luigi Dansi

La storia di Jasmina

Mi scrive Rossella Kholer “ecco un’altra storia, sempre dal nostro libro Sopra il tavolo di cucina-donne che intrecciano storie.
Jasmina è la mamma di un compagno di scuola materna di mio figlio Francesco, ora quindicenne.”

Mi chiamo Jasmina. Sono bosniaca.
Vivevo a Kozarac, una cittadina della municipalità di Prijedor; questa città si trova nella parte serba della Federazione di Bosnia Erzegovina.  Proprio per questo è stata teatro di una delle più terribili vicende di pulizia etnica di tutti i Balcani.

Dopo cinque anni di tentativi, nel 1991 ho avuto il mio primo bambino. Mio marito l’ha voluto chiamare Jasmin, come il mio fratello gemello: loro due, infatti, non erano solo cognati, ma anche grandi amici. Alla luce di tutto quanto è successo in seguito, mi chiedo se questa sua volontà non fosse un segno del cielo…
Jasmin (ma noi lo chiamiamo abitualmente Jasko) nacque in ospedale a Prijedor, quando c’era la guerra in Croazia. La situazione era già molto tesa e i serbi cominciavano a non vedere di buon occhio noi bosniaci. Credo che sia per questo che al momento del parto i medici non mi fecero l’abituale profilassi perché avevo RH negativo.
Comunque tutto andò bene e questa volta, dopo soli 3 mesi, rimasi incinta di un altro bambino.

Quando Jasko aveva 8 mesi scoppiò la guerra civile in Bosnia e iniziarono dei terribili bombardamenti. Riscordo benissimo il momento in cui cominciarono. Avevamo appena cenato e saltò la luce. Subito iniziò a suonare la sirena  e cominciarono  cadere le bombe. Mi hanno detto che su Kozarac sono cadute in quel periodo circa 25 000 granate (per parlare solo di queste), delle armi esplosive micidiali che, una volta a terra, facevano partire tutt’intorno decine e decine di lame le quali, velocissime,  tagliavano tutto quello che incontravano. La nostra famiglia scappò in cantina, ma molti fuggirono nei boschi: tutti questi furono uccisi.
Noi non tornammo più nelle nostre case.
Avevo portato con me soltanto una coperta per il bambino, ma nient’altro: non potevo immaginare che non avrei più potuto mettere piede in casa e prendere le mie cose…

Restammo due giorni in cantina. Quindi ci ordinarono con i megafoni di uscire: tutti quelli che non uscivano sarebbero stati uccisi. Così è stato. Anche mio padre, che non poteva credere  a quello che stava succedendo, è stato ucciso sulla porta di casa.
Cominciammo a correre, a scappare, non ci si poteva fermare, nemmeno si poteva aiutare chi cadeva.
Vennero divisi gli uomini dalle donne e i bambini. Mio fratello Jasmin fu mandato nel campo di concentramento di Omarska, il più terribile, un vero campo di sterminio.
Lo hanno identificato nel 2007, quando, attraverso le analisi del DNA, hanno ricostruito le ossa dei morti nelle fosse comuni.
Anche mio marito, che aveva 28 anni, è stato ucciso in campo di concentramento: anche per lui la certezza l’ho avuta solo di recente e sono stata dichiarata ufficialmente vedova.
Un altro mio fratello, Iliaz, è stato invece fortunato perché aveva un trattore e i serbi lo risparmiarono, facendogli fare da autista.

Io invece fui mandata nel campo di Trnopolje, non lontano da Kozarac: era un campo di concentramento soprattutto per donne, bambini e anziani. Ci fecero camminare per 12 chilometri, senza mangiare, né bere. Arrivammo in quella che era un tempo una scuola media.
Ci rimasi dal 24 maggio al 16 giugno del ’92. Questo campo era forse meno terribile degli altri campi, anche se ci davano pochissimo cibo. Vidi comunque cose che non posso dimenticare: torture, assassinii, violenze sessuali a bambine…
Il 16 giugno ci fecero salire su un treno con altre donne e bambini. Era un carro bestiame, con solo una finestrella in alto, in un vagone ci stavano circa cento persone, non c’era posto neanche per sedersi. Il treno viaggiava, viaggiava, senza fermarsi mai, neanche per farci fare pipì. E io ero incinta di sei mesi…
Dopo 12 ore vennero aperte le porte scorrevoli e ci fecero scendere in un campo per fare i nostri bisogni. Mentre li facevamo i soldati ci prendevano in giro.
Di nuovo salimmo in treno ed arrivammo a Doboi, al confine con la Croazia. Ci fecero scendere e ci dissero di andare, correre, altrimenti ci avrebbero sparato.
Abbiamo camminato e camminato, attraverso boschi, lungo fiumi, sempre con la paura che ci seguissero e ci uccidessero…

A Doboj ci ospitarono: la popolazione era musulmana e ci aiutò volentieri. Ci rifocillarono, ci fecero fare la doccia e ci diedero dei vestiti. Anche loro erano in situazioni drammatiche, ma si comportarono molto gentilmente e con solidarietà. Dopo qualche tempo fummo trasferiti con camion, trattori e pullman al confine tra Bosnia e Croazia, dove c’è una città divisa in due dal fiume Sava e dal confine tra i due Stati: la città bosbniaca si chiama Bosanski Brod e quella croata Slavonski Brod.
All’inizio non ci lasciavano entrare in Croazia e noi pensammo anche di attraversare il fiume nuotando.
Per fortuna, a un certo punto ci fecero entrare. Jasko stava male e lo portai in ospedale, dove lo curarono mettendogli le flebo. Il giorno successivo Jasko stava meglio. Con un pullman ci portarono nel  campo profughi di Gasinci Non era un campo di concentramento, ma era comunque circondato da filo spinato e  per uscire dovevamo chiedere il permesso ai soldati; comunque bisognava fare 17 km a piedi per raggiungere la città.
Vivevamo in grandi tende, dormendo sulle brande. In tutto il campo c’era un solo edificio con docce e due gabinetti, e doveva servire  per mille persone. Per fare la doccia bisognava fare una coda di un’ora. La situazione igienica era davvero problematica ed eravamo pieni di pidocchi.
In questo campo sono stata dal giugno ’92 all’aprile ’94.

Per vestirci ricevevamo gli abiti dalla Caritas: oggi, ogni volta che vado a depositare un sacchetto nel raccoglitore dell’Humana, non posso fare a meno di pensare che i miei vestiti forse raggiungeranno persone con situazioni simili.
Mangiavamo poco e malissimo: pane e scatolette. Sognavamo la frutta. All’esterno del campo c’erano alcuni alberi di prugne e i soldati a volte davano il permesso di andarle a raccogliere, ma soltanto a noi donne incinte. Ogni tanto qualcuno riusciva a procurarsi un po’ di burro e fare con quello e della farina delle focaccette che spandevano intorno un odore buonissimo.
Per lavare prendevamo dalla spazzatura le scatole grandi dei cetrioli e facevamo bollire l’acqua con un po’ di sapone, soprattutto per disinfettare i ciripà.
Tutte le mie energie erano indirizzate a conservare il massimo dell’igiene possibile, perché in quella situazioe promiscua era facilissimo prendersi malattie, infezioni, parassiti. Per esempio, tenevo come una reliquia il vasino di Jasko, che mi ero procurata con grandi sacrifici: infatti così almeno da quel punto di vista ero tranquilla. Un giorno ci sono rimasta malissimo quando ho scoperto che l’aveva usato una signora…
In maggiore difficoltà erano le donne più ricche, perché non sapevano né adattarsi, né arrangiarsi. Una volta una professoressa appena arrivata chiese: “Ma i miei vestiti chi li lava?”, non rendendosi conto dell’assurdità della sua domanda. In seguito, cercava sempre di mettere i suoi abiti da lavare in mezzo ai nostri, quando sapeva che  avremmo fatto il bucato.

Avvicinandosi la data del parto, ho dovuto andare per tempo dai soldati per farmi accompagnare perché l’ospedale era lontano.
Il 2 ottobre è nato Mirza. Io ero terrorizzata perché ero anemica e non avevo fatto alcun controllo: non sapevo se il bambino aveva potuto crescere sano nella mia pancia.  Poi c’era sempre la questione del sangue AB negativo, ma per fortuna tutto è andato bene: il bambino ha ereditato il mio gruppo sanguigno, quindi compatibile con me.
Nato il bambino, sono stata tranquilla per tre giorni. Ma poi, nella baracca, gli altri abitanti hanno cominciato a sollecitarmi: “Oggi è il tuo turno per fare la legna!” Infatti, a turno dovevamo andare a prendere la legna dai camion, lottando per ottenerla,  spaccarla e poi segarla a mano. E il fatto che avessi avuto da poco un bambino non mi esentava dal lavoro. Quando si è in situazioni drammatiche, non c’è molta solidarietà, ognuno pensa a sé e alla propria famiglia: anche per il cibo, oppure per pulire la baracca.
Molti poi mi dicevano: “Guarda questa, c’è la guerra e si mette a fare un figlio!” Ma io ero rimasta incinta prima che scoppiasse! Certo non lo avrei deciso, se avessi saputo in che situazione mi sarei trovata.

Anche se la nascita del mio secondo bambino  è avvenuta in condizioni estreme, vorrei raccontare qualcosa  sulle nostre tradizioni relative al matrimonio e al parto, che sono molto belle e che ricordo sempre.
La madre di ogni ragazza comincia prepararle il corredo molto presto, cucendolo o acquistandolo.
Il matrimonio avviene in Municipio. La festa continua a casa, dove si mangia e si balla, con la musica dal vivo. Tutti sono invitati alla festa di matrimonio. Semplicemente, si sa che in quella casa si festeggia: chi vuole va e partecipa. Le porte della casa sono aperte per tre giorni e tre notti. Ai parenti e agli amici più vicini è la sposa a fare un piccolo regalo che viene ricambiato in denaro od oggetti per la casa.
Dopo il parto, la puerpera non esce di casa per quaranta giorni. Si riposa, non ha rapporti sessuali, nemmeno cucina, perché è accudita dai parenti e tutti portano qualcosa da mangiare. La casa è sempre aperta e chi vuole va a visitare la mamma e il suo bambino.
Questo è bello, perché ti fa sentire amata e coccolata, ma è anche stancante perché c’è sempre qualcuno che entra ed esce e, anche se sei stremata e hai sonno, devi sempre dar retta a chi viene a farti visita.
La caratteristica delle case sempre aperte è proprio tipica delle nostre parti. Questo avviene naturalmente in occasioni speciali, come un matrimonio, una nascita o un lutto, ma avviene anche tutti i giorni, tra vicini. Io, per esempio, a colazione oppure al pomeriggio, dopo aver fatto le faccende di casa, mi trovavo con le amiche, a chiacchierare, bere caffè, e ancora chiacchierare.

Mentre ero nel campo fui adottata. Nel senso che, attraverso un circolo ARCI di Firenze, ci fu un progetto per adottare a distanza famiglie intere residenti nel campo profughi. Così, la direttrice del museo etrusco di Firenze, una donna meravigliosa, cominciò a comunicare con noi e ad inviarci del denaro. Questo bellissimo rapporto si è mantenuto nel tempo, la signora ha continuato a sostenerci anche quando siamo arrivati in Italia; ci siamo conosciute e ancora oggi siamo in contatto.
Comunque, in tutto quel periodo il mio continuo tentativo era di riuscire ad andarmene dal campo. Speravo di andare in Austria dove si era già rifugiato mio fratello, ma in Bosnia le donne perdono il proprio cognome da nubile e acquisiscono soltanto e definitivamente quello del marito. Io perciò non risultavo parente di mio fratello, perché avevo un altro cognome e non è stato possibile il ricongiungimento.

Quando c’è stata la possibilità di andare in Italia ho detto “va bene, qualsiasi cosa sarà megli che qui.”
E così sono partita. Avrei dovuto sistemarmi in una famiglia della zona di Torino, ma le famiglie Stasi e Savio, di Invorio, che vivevano in un’unica grande casa, si erano dichiarate disponibili e sono capitata da loro.
Quando sono venuti a prendermi si aspettavano una donna con due bambine, perché i nomi, Mirza e Jasmin, li avevano ingannati. Poi, sapendo che sono musulmana, non credevano certo di vedere una donna bionda con due bambini dai capelli chiarissimi, quasi bianchi.
Io allora non comprendevo una parola di italiano, ma ho capito subito che mi trovavo in una bella situazione, dove i miei bambini avrebbero trovato l’affetto di zii, cugini e anche nonni. Mirza e Jasko hanno cominciato ad andare all’asilo e io nel primo periodo ho studiato come una pazza l’italiano, aiutata da tutti: per esempio, su ogni oggetto della casa avevano appiccicato bigliettini con il nome in italiano e in bosniaco.
Ora io lavoro e viviamo in una nostra casa. I ragazzi sono grandi. Jasko frequenta l’Itis e Mirza la scuola professionale per elettricisti: avrebbe voluto fare il liceo artistico, ma io preferisco che abbia un lavoro sicuro in mano.
Non parlano bosniaco e si sentono italiani. Sanno che siamo musulmani, ma non li ho educati nella nostra fede. Credo infatti che l’importante sia essere onesti e solidali, rispettare gli altri e vivere in pace: questo ho cercato di insegnare loro.
Certo, ogni tanto io racconto di quello che è successo, perché voglio che sappiano e che non si dimentichino, però loro sono cresciuti qui e vivono come tutti i loro coetanei, vogliono le stesse cose, hanno le stesse ambizioni.  Ogni anno torno in Bosnia da mia suocera, ma ogni volta per loro è più difficile, là si sentono estranei.
Anche se hanno caratteri diversissimi, forse tutti e due si sentono un po’ defraudati dalla vita, da quello che avrebbero potuto avere vivendo in una famiglia normale, con un padre che lavora e condizioni di vita tranquille.
Ma tutto questo è successo, e non si può tornare indietro.

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