Archivio per la categoria 'Storie straniere'
Gli immigrati in provincia: marocchini sull’appennino
Pubblicato da Marcella De Carli
Sono stata alcuni giorni a Toano, il paese dei miei nonni, luogo amato e discusso, come capita ai posti della nostra formazione e delle origini. Un paese che ha fatto parte della storia e che pare averla dimenticata.
Mi è utile guardare l’Italia da un’altra prospettiva che non sia quella milanese, cittadina e particolare. Cogliere gli umori delle persone della provincia è ancora più indicativo.
” sono stata a trovare mia nonna a Gusciola e ho visto un capriolo! vicinissimo, quasi in mezzo alla strada! Ma come mai se ne vedono tanti ultimamente?” “eh…come mai? perchè sono protetti” “ah…non si possono cacciare?” “e sì, qui solo a caprioli e marocchini danno la protezione”
Cerco di capire che cosa significhi questo commento. A Toano da un po’ di anni sono comparsi gli immigrati. Molti (tutti?) impiegati nelle ceramiche della bassa, vivono in montagna, probabilmente a causa del costo minore degli affitti. Qualcuno mi dice che il Comune ha a disposizione dei fondi statali da utilizzare a favore di queste “categorie” svantaggiate; ecco allora che compare, ad esempio, lo scuolabus per i figli dei marocchini. Bene, penso io, almeno siamo sicuri che i bambini andranno a scuola. E questo mi pare, in prospettiva, una buona semina per il futuro. Male, mi dicono, perchè per noi non c’è questo servizio. Chiedetelo allora, se vi serve, penso io.
Le ceramiche sono in crisi e i primi a restare a casa pare che siano gli stranieri. Questo non crea una sensazione di sicurezza. Ma mi dicono anche che molti di loro pensano di rientrare nel loro Paese. Bene, pensano i toanesi. Però…però se se ne vanno si svuoteranno le classi delle scuole….Scuole che a malapena riescono a restare aperte, grazie ai tentativi di smantellamento di questo governo.
La storia di Rosa
Pubblicato da Marcella De Carli
Rossella mi ha inviato questa storia incredibile, struggente, di violenza e d’amore, tratta dal libro SOPRA IL TAVOLO DELLA CUCINA, DONNE CHE INTRECCIANO STORIE, realizzato dall’associazione Terra di Confine di lesa (Novara), partendo dal tema della maternità. La ringrazio di cuore.
Sono Rosa, salvadoreña.
Negli anni Settanta ero una guerrigliera del Fronte per la Liberazione Nazionale Farabundo Martì, nome dell’eroico rivoluzionario che aveva lottato per l’indipendenza durante il XIX secolo.
Ho detto che ero una guerrigliera, ma forse il termine è improprio: il mio compito era quello di soccorrere i feriti, di identificare e fotografare le vittime dei massacri, di individuare le famiglie dei combattenti che erano stati uccisi.
Quindi posso dire che, sì, ero una guerrigliera perché appartenevo al movimento, però io non ho mai ucciso nessuno.Sono nata nello Stato del Salvador, piccola nazione del Centroamerica, nella provincia di Usulutàn, da una famiglia modesta ma veramente fantastica, anche se mio padre ci abbandonò quando io avevo cinque anni.
Eravamo in cinque fratelli e mia madre, ostetrica, capì ben presto che per me non ci sarebbe stato un bel futuro e soprattutto non avrei proprio potuto studiare. Perciò, a malincuore, decise di separarmi dai miei fratelli per affidarmi a una famiglia molto ricca, gli Avilas.
All’inizio ebbi un forte moto di ribellione, un rifiuto feroce. Solo dopo molti anni capii che mia madre, soffrendo terribilmente, mi staccò da sè per amore.
Gli Avilas erano una bella famiglia di medici e avvocati, avevano altri figli e mandarono anche me nel miglior collegio del Salvador.
Crescendo, mi accorgevo sempre più della grande ingiustizia che viveva il mio Paese: erano infatti gli anni della dittatura che mise in atto una feroce repressione contro i contadini, contro i coloni come mio padre. I militari erano comandati dal generale Carlos Humberto Romero che, attraverso la cosiddetta riforma agraria, confiscò tutte le proprietà, lasciando nella totale indigenza migliaia di famiglie come la mia.Sentivo forte la rabbia per queste ingiustizie e a 13 anni decisi di scappare dal collegio perché non sopportavo il contrasto tra la mia vita tranquilla e opulenta e la miseria e la disperazione che avevo intorno.
In questo mi aiutò Josè: l’uomo che sarebbe poi diventato mio marito incarnava la lotta contro il potere. Era deciso e leale, pronto a dare la vita per il suo ideale che divenne quindi anche il mio. Spesso ci incontravamo di nascosto, in modo rocambolesco sotto le mura del collegio. La sua famiglia di ricchi farmacisti lo aveva destinato al seminario, ma lui se n’era andato e frequentava l’università.
Ci fidanzammo, poi ci sposammo di nascosto in un rifugio e ci stabilimmo a casa di uno zio.
Con lui iniziai a praticare la lotta sindacale attraverso la protesta e la denuncia, ma sempre più spesso ci trovavamo a contare i corpi dei nostri amici straziati dalle torture, a volte anche decapitati per confondere le loro identità. Ai preti gesuiti, molto colti, che difendevano la popolazione, veniva aperto il cranio e strappato il cervello.
Il dialogo, quindi, non funzionava: decidemmo perciò di intraprendere la lotta armata, ci autotassammo e acquistammo parecchie armi.A 15 anni ebbi la mia prima figlia, Ana. Era il 1974. Partorii in ospedale, non avevo con me nessuno della famiglia e nessuno venne a trovarmi.
Da noi è consuetudine che la famiglia stia molto vicino alla neomamma, soprattutto se giovane come ero io. Di solito, per quaranta giorni la puerpera è completamente servita dalla madre o dalle zie, che le fanno fare la “dieta”, cucinandole del cibo particolare che favorisce l’allattamento. Per esempio, le danno da mangiare molto formaggio, cacao, verdure e minestre; inoltre non le permettono di lavorare, né di compiere sforzi, creando un clima di serenità favorevole al suo spirito.
Mio marito vide la bambina dopo tre mesi. Era emozionato e avrebbe voluto restare con noi perché aveva tanta voglia di vivere in famiglia. Mi disse: ”Ana ha gli occhi del Tigre”. Tigre era infatti il suo nome di battaglia, a causa del colore dell’iride e del suo sguardo felino.
Nonostante i problemi, continuavamo a studiare entrambi: io frequentavo la scuola per infermieri e lui era iscritto a giurisprudenza. Per guadagnare qualcosa Josè insegnava e io accudivo persone anziane.
Continuavamo a partecipare ad attentati e rappresaglie ed eravamo ricercati per questo motivo; iniziarono allora gli anni più difficili di tutta la mia vita.
Dopo la nascita di Ana, mio marito rientrò a casa poche volte e per visite brevissime. Era una situazione angosciante: raramente avevo sue notizie durante i mesi di lontananza, vivevamo alla macchia, non vedevo mia madre alla quale avevo affidato la mia bambina, né i miei fratelli. Ero sola e dovevo spostarmi continuamente, di notte; spesso rimanevo paralizzata dalla paura, per esempio quando sentivo i passi degli uomini degli squadroni della morte accerchiare la casa, oppure i carri armati sempre più vicini, pronti ad abbattere le abitazioni.
Durante la militanza sono nati Paco e Luz, che significa luce. Per partorire Paco andai a piedi in ospedale, percorrendo 5 chilometri con le doglie. Fu un parto rabbioso, non volevo più soffrire e poi desideravo avere lì mio marito o almeno qualcuno della mia famiglia; invece ero ancora più sola che mai.
Dopo un anno partorii Luz da sola, in casa, con lo stato d’assedio, senza luce. Avevo studiato da infermiera e alcune nozioni le avevo imparate da mia mamma ostetrica, ma era tutto terribile, doloroso, ero devastata anche nello spirito. Non so spiegarmi come mai in una situazione di morte si desideri così tanto generare la vita.
Alla nascita, Luz pesava 1800 grammi, il giorno dopo fui costretta a portarla a piedi in ospedale facendo attenzione a non farmi riconoscere. Durante quel ricovero, mi addormentarono e senza dirmi nulla mi chiusero le tube. Seppi poi che lo fecero considerando la mia giovane età e la situazione che stavo vivendo.
Le mie due figlie portano un cognome diverso perché non doveva apparire che erano figlie del Tigre, perché i militari avrebbero capito che era ancora in Salvador e lo avrebbero cercato con più accanimento. Solo Paco ha potuto essere riconosciuto da suo padre, perché subito dopo la sua nascita ci fu una brevissima tregua.
La guerra era ormai esplosa e la guerriglia era in piena attività. Mio marito era davvero in pericolo ed io volli che scappasse. Gli dissi “Vai, salva almeno la tua vita, io mi arrangerò”.
Ci lasciammo con un abbraccio fortissimo e un bacio struggente: ebbi solo il tempo di comunicargli che aspettavo il nostro terzo figlio che lui non avrebbe mai visto. Josè diede uno sguardo breve ai bimbi e poi si girò di scatto, piangendo. E’ l’ultima immagine che ho di mio marito, perchè non ci saremmo mai più ritrovati.Eravamo ricercati. Io andavo a raccogliere i feriti e li curavo, erano tutti compagni di mio marito. Iniziai a lavorare all’ospedale militare, sempre sotto falsa identità.
Una notte vennero a prendermi, erano gli uomini dello squadrone della morte, volevano sapere dove fosse nascosto Josè. Mi spogliarono completamente, mi bendarono, mi violentarono a turno, mi picchiarono con un bastone fino a farmi sentire suonare le campane nelle orecchie. Mi puntarono il mitra contro le tempie, poi mi violentarono ancora e mi fecero un’iniezione endovenosa. Mi risvegliai non so quanto tempo dopo sotto un getto d’acqua gelida; avevo il ciclo, ero tutta sanguinante e piena di morsi. Non mi diedero da mangiare né mi permisero di dormire.
Continuarono così per 15 giorni, ma non parlai. Con me c’era una ragazza giovanissima; dopo averle fatto subire la mia sorte, le infilarono un cero nella vagina fino a perforarla, facendola morire dissanguata, lentamente.
Gli uomini torturati giacevano nudi e legati su dei letti cosparsi d’acqua. Le mani, i piedi, le orecchie ed i genitali venivano collegati a elettrodi che producevano scosse tremende, ma non tali da farli morire subito; erano straziati e nessuno uscì vivo. Soltanto io mi salvai perché mi credettero morta.
Durante questi giorni di tortura, chiudevo gli occhi e vedevo il viso dei miei bambini, sempre, continuamente. Fu una visione che non mi abbandonò mai, mi alimentavo della loro vista, superavo il male che mi infliggevano solo pensando a loro. E’ incredibile come l’immagine dei miei figli fosse così codificata nella mia mente.
Forse fu solo quello a salvarmi.Dopo che mi fui lentamente ripresa dalle violenze, mi arrestarono. La mia famiglia affidataria venne a saperlo e pagò per farmi uscire di prigione. Fu allora che i militari diedero fuoco alla casa dove abitavo, ma mi salvai perché avevo intuito che stava succedendo qualcosa di brutto: le mie orecchie erano ormai allenate a riconoscere il rumore dei passi degli uomini dello squadrone. A mezzanotte feci appena in tempo ad uscire di nascosto, attraversai il filo spinato e dall’esterno vidi esplodere la casa.
Era il segnale inequivocabile che dovevo sparire anch’io.
Consegnai i bambini a mia madre e iniziai a girare per cercare un aiuto per partire.
Grazie al mio cognome italiano, ereditato da mio nonno ligure emigrato in Salvador, potei raggiungere l’Italia come rifugiata politica. Partii senza alcun
bagaglio, neppure una foto dei miei figli, l’unico vestito era quello che indossavo; pesavo 32 chili.
A Milano mi aiutò un’amica italiana; vissi con lei tre anni, mentre lavoravo per molte ore in una casa privata.
Era il 1981. L’anno prima, il 24 marzo, nella chiesa della Divina Provvidenza, avevano assassinato la migliore persona che conobbi in quegli anni, e cioè monsignor Oscar Romero. Con quell’omicidio ogni speranza era distrutta!
Guadagnavo centomila lire al mese che mandavo sotto falso nome in Salvador per i miei bambini: il mio pensiero struggente era solo per loro. Vivevo male, avevo gli incubi, di notte gridavo, mi svegliavo sudata, agitata, mi calmava solo il pensiero dei miei bambini, come quando mi torturavano.
Non potevo espormi troppo perché in Salvador ero ancora ricercata. Seppi che mio marito, con un gruppo di guerriglieri aiutati da Fidel Castro, aveva raggiunto la Russia, ma che in seguito alla deportazione era morto.Erano notizie ufficiali provenienti da fonti attendibili. A questo punto, dopo aver dichiarato lo stato di morte del mio coniuge, una persona straordinaria, un funzionario dell’Alitalia che aveva a cuore la mia vicenda, decise di fare per me una cosa eccezionale, senza secondi fini: mi sposò e potei così far venire in Italia i miei bambini.
Tra me e questa persona non ci fu nulla di sentimentale: io non riuscivo più ad amare e neppure a lasciarmi andare, ero lacerata dentro, perciò ci siamo voluti bene come fratelli. Quando lui si fidanzò, divorziammo e quindi potè poi sposarsi. Siamo tuttora grandi amici e tra lui e i miei figli c’è un rapporto straordinario.
Quando i miei bambini arrivarono a Milano ero felice: non li vedevo da tre anni e avevo anche rischiato di perderli perché in Salvador dicevano che ero morta sotto il crollo della casa.
Ma i problemi non erano finiti. Persi l’abitazione che mi aveva procurato il mio amico, perché eravamo in troppi!! Mio figlio Paco era violento, quasi cieco a causa dei traumi, Ana aveva perso l’udito per le bombe e gli spari, solo Luz, la più piccola, aveva patito di meno. Tutti quanti odiavano la lingua spagnola perché ricordava quel periodo di grande sofferenza.
Io stessa soffrivo e soffro tuttora di forti emicranie, sento di avere il cervello danneggiato, ho pochi ricordi, la violenza ha interrotto tutti i ricordi della mia infanzia e le ferite delle torture sono solo assopite e non spente.
Per molto tempo girai con un pistola Beretta 765 in borsa, non la lasciavo mai; adesso vado in giro con la Bibbia in tasca, perché condivido la fede con i Testimoni di Geova che mi hanno aperto le loro case.
Qualche anno fa, in televisione vidi un documentario con interviste sulla lotta armata in Salvador e ad un certo punto riconobbi Josè, il Tigre: impossibile confonderlo. Allora era vivo! Telefonai alla Rai, mi rivolsi ad Amnesty International e venni a sapere che mio marito non era morto, ma, nonostante le mie continue ricerche, non ci fu modo di rintracciarlo.Mi rassegnai ad una vita da vedova: i ragazzi frequentavano le scuole e io lavoravo tantissimo per non far mancare loro il necessario. Dopo il diploma ognuno di loro ha trovato una sistemazione e da qualche anno anche mia madre vive in Italia. Io ho conosciuto un uomo più giovane di me e ora viviamo insieme.
Sono ormai nonna, ma i miei tormenti non sono finiti perché a marzo di quest’anno, nel cuore della notte, sono stata svegliata da una telefonata. Era il Tigre che, dopo anni di ricerche, aveva finalmente ottenuto il mio numero di telefono. Credevo di morire dall’emozione; non riuscivo a parlare, ero paralizzata dallo stupore, mi sembrava di avere un incubo.
Il Tigre mi ha detto che vive in Svezia e che desidera tantissimo vedere me e i nostri figli: appena vorrò lui sarà pronto a raggiungermi.
Ho parlato con i miei figli, ma loro, e soprattutto Paco, non vogliono incontrarlo perché attribuiscono a lui la colpa di quanto hanno subìto in questi anni. Per me è un enorme dispiacere e non so più come fare per incoraggiarli a questo incontro. Josè non ha neppure mai visto Luz e io ho una tremenda voglia di incontrarlo.
E’ terribile dover negare ad un padre l’incontro con i suoi figli. Ecco che cos’è la guerra, ecco che cosa significa credere a un ideale di uguaglianza e di giustizia.
Che prezzo orrendo devi pagare per cercare di salvare il tuo popolo, per riconquistare ciò che ti apparteneva!
Non so come finirà questa storia, ma posso dire che da quella notte di marzo la mia vita è di nuovo in trasformazione e ogni cosa potrà ancora succedere.
L’unica certezza è quella di essere riuscita a tenere insieme i miei figli che si vogliono bene e si aiutano.
Io, con i pochi ricordi di cui dispongo, addormento il mio adorato nipotino Alessandro cantando una filastrocca che fa così:La loba, la loba le comprò al lobin
un calzon de seda e un gorro bonito
la loba se va de paseo llevando
en sus brasos su hijito feuLa lupa, la lupa, ha comprato al lupetto
un pantalone di seta rosso
e un berretto bello
la lupa va a spasso
portando in braccio suo figlio brutto.
Alle fontane, seconda e terza puntata
Pubblicato da Marcella De Carli
L’ho incontrato il giorno dopo il vigile delle fontane. Mentre andavo al mercato spingendo il passeggino, in lontananza mi ha riconosciuto e sorriso. Erano in coppia (anche i vigili urbani?).
E’ stato cortese, mi si è avvicinato e si è in qualche modo giustificato (non scusato) per il suo comportamento, spiegando che alla fin fine avevo ragione, che era andato a verificare e che aveva trovato solo dei bambini che giocavano con l’acqua. E mi ha confermato che però nel frattempo era uscita una pattuglia (speciale per i rom) dalla sede centrale.
Abbiamo scherzato, io, lui e il suo collega, sulle paranoie della gente e ho avuto la sensazione che il mio gesto, il mio essermi rivolta a lui offesa per il suo non essere stato equilibrato nel gestire la situazione, sia stato importante. Una piccola goccia. Proprio piccola.
Perchè poi il pomeriggio stesso è stato bruttissimo quello che ho visto.
Un caldo africano ha spinto la maggior parte delle persone a casa o al fresco, ma io avevo forzatamente da passare un po’ di tempo fuori e, da madre snaturata quale sono, ho steso un telo all’ombra di un albero per la piccola e ho lasciato che miei due bimbi “grandi” si bagnassero in mutande (!) alle fontane.
La piazza era deserta, solo due anziane su una panchina, un gruppo di una quindicina di preadolescenti in piena tempesta ormonale e quattro bambini.
Quattro bambini chiaramente stranieri, poveri, malconci, magri di una magrezza preoccupante, con tagli e ferite, e segni di malattie della pelle. Quattro bambini grandicelli che con due “grazielle” scassate si buttavano tra gli spruzzi ridendo come i piccoli, gioiosi.
Quattro bambini che solo per il fatto di essere quello che sono possono diventare oggetto di violenza da parte di coetanei.
Per tutto il pomeriggio alcuni dei ragazzini presenti li hanno aggrediti verbalmente, minacciati e offesi.
Quando sono arrivata nella piazza una più o meno dodicenne robustina, aggressiva e urlante stava “facendo brutto” (si dice ancora così) con il più grande, due occhi verdissimi e la faccia di uno che non ce la può fare. Lo minacciava, accompagnata da un ragazzino alto e grosso il doppio di lei, dicendogli cose del tipo “te ne devi andaaaaaaaare…..hai capiiito pezzo di meeeeeeeerda!”. Un sequenza di parolacce davvero encomiabile (io non ne conosco tante, anche se il mio essere cresciuta a Baggio mi ha fornito un discreto vocabolario). Sono intervenuta chiedendole quale fosse il problema. Farfugliamenti e parolacce. Allora, al suo allontanarsi, le ho chiesto di controllarsi, perchè c’erano lì anche i miei bambini a giocare e non gradivo che conoscessero tutto il suo colorito linguaggio. Mi ha risposto che i miei figli si potevano anche tappare le orecchie, ma lo ha fatto con gli occhi bassi e vergognandosi, cosa che mi ha fatto desistere dall’infierire ulteriormente di fronte al branco.
Sono rimasta ad osservarli. E’ stato un continuo balletto tra l’avvicinarsi, l’allontanarsi e il puntare i quattro, che nel frattempo continuavano a giocare con l’acqua delle fontane. Ad un certo punto la ragazzina ha superato quella che io stavo considerando come “distanza di sicurezza”, così mi sono alzata, ma non sono arrivata in tempo. Un pugno in pieno petto. Così. Per niente. Nel petto magrissimo di un ragazzino ferito dalla vita. E quindi un urlo. Acuto. Acutissimo. Spaventoso. Il pianto di un bambino piccolo che non riesce a respirare e che non capisce.
Al mio avvicinarsi il gruppo si è dileguato. Il ragazzino con gli occhi verdi, faticando a tirare il fiato, piangendo, ha cercato di dirmi che voleva il suo papà. Io, trattendo le lacrime e sorridendo davanti ai miei figli, accarezzandolo gli ho chiesto scusa, gli ho detto che mi dispiaceva per quello che gli avevano fatto. Lui ha capito e mi ha continuato a dire “io non fatto niente, io non fatto niente!!!!”
Ho pensato che quello che mi angosciava non era il gesto della ragazzina, idiota, ma il silenzio del gruppo. Mi è sembrato così evidente che il male stesse in quell’incapacità di reagire degli altri che ho deciso di avvicinare alcuni di loro, nel frattempo scioltisi in gruppetti minori. Tre bimbe appena cresciute mi hanno risposto imbarazzate, cercando di giustificarsi e di dire che non c’entravano nulla. E invece è proprio qui che si sbagliano, perchè, ho detto loro, non prendere una posizione, non prendere anche le distanze, non dire “basta” è complicità.
Questo è il nostro Paese.
I quattro bambini sono tornati alle loro famiglie, non nel campo nomadi ma più probabilmente nella favela dell’ex istituto Marchiondi.
Tre piccole storie straniere in poco più di un’ora
Pubblicato da Marcella De Carli
Ieri.
Alle tre e dieci sono in macchina e vado verso casa. Sono allegra, calma, non ho fretta e non c’è traffico. Fa un caldo torrido e Francesca si è addormentata svenuta sul suo seggiolino con il suo solito dito in bocca. Alla fermata della 58 in via Costanza c’è una ragazza, è straniera (filippina, credo), sola sotto il sole con l’aria stanca. Ecco, d’istinto accosto e le chiedo se vuole un passaggio, così…Lei al momento non capisce, poi sì, ma andiamo in direzioni diverse e ci salutiamo senza imbarazzo. Sorridenti.
Alle quattro fuori da scuola di Sebastiano. Un signore sulla quarantina (ma ne dimostra almeno dieci di più) mi ferma e mi chiede dei soldi. Io, complice una situazione di delirio dei due bambini, non lo ascolto, faccio spallucce e mi allontano. Carico i bimbi in macchina e lui mi raggiunge, ha l’aria di uno che si vergogna e mi fa vedere un foglietto preso da uno di quei blocchetti pubblicitari delle aziende farmaceutiche; sopra ci sono scritti i nomi di due farmaci per il cuore (uno lo conosco) con i prezzi a fianco per un totale di circa 12 euro. Cerca di spiegarmi che sono per sua moglie, mi fa segno con la mano che ha preso una botta alla testa perchè è caduta e poi si tocca il cuore. Gli do un euro ma non capisco bene. Lui mi guarda con la faccia di uno che non sa più che cosa fare, davvero. Allora proviamo a parlare, capisco che è bulgaro (!), mi dice che abita in zona Lorenteggio, gli chiedo in quale ospedale abbia portato la moglie e capisco che non ce l’ha portata, mi dice solo “no…farmacia”. Allora chiamo Tommaso che mi cerca il numero e l’indirizzo del NAGA, gli spiego che è per tutti, anche per chi non ha il permesso, di andare, di non avere paura. Intanto Francesca piange e lui si preoccupa per lei. Ci lasciamo e lui è imbarazzato, fa un gesto bellissimo, mi prende la mano e me la bacia. Fa per andarsene ma un attimo dopo con le lacrime agli occhi mi dà un bacio sulla guancia, sincero, bello e riconoscente. E ride.
Alle quattro e venti sono al quartiere degli Olmi a prendere Marte che esce da scuola. Mentre parcheggio sento un tipo che parla con il vigile alle strisce pedonali di una situazione “insostenibile” alla piazza delle fontane. La piazza delle fontane è una piazza vicina alle scuole costruita in maniera tale che da terra escano dei getti d’acqua alti più o meno un metro, non funziona mai, ma in questi giorni l’hanno accesa e con questo caldo è davvero bello e divertente. Cerco di capire di quale situazione parli e solo dopo, dallo sguardo di una ragazza rom lì presente, capisco che parla di “zingari che si fanno il bagno….e nudi!!”. Il buon vigile immediatamente chiama la centrale per comunicare che c’è “un problema alla piazza delle fontane”, che mandino una pattuglia. Non ci posso credere e allora vado a vedere con i miei occhi. Ed eccoli i delinquenti, quattro ragazzini (il più grande avrà avuto tredici, quattordici anni, altri due sui dieci anni e una bimbetta piccola di circa sei anni) che giocano e si bagnano (come del resto poco più tardi faranno i miei figli e molti altri bambini). Chiedo a degli amici e mi riferiscono che l’unica nudità che si è vista è stata quella della bimba a cui hanno cambiato i vestiti. Allora torno dal vigile e gli faccio presente la situazione, gli dico che mi fa impressione che lui non abbia nemmeno verificato la veridicità della cosa, lui si giustifica dicendo che non avrebbe potuto dovendo stare a presidiare le strisce pedonali, che se un cittadino gli comunica un problema lui è tenuto a girarlo alla centrale, io gli ribatto dicendo che il suo dovere è anche quello di gestire gli animi delle persone che gli si rivolgono, che questi sono gli stessi che fanno la voce grossa con dei ragazzini rom e che poi stanno zitti di fronte alle prepotenze dei mafiosi della zona. Il vigile annuisce e si giustifica dicendomi che la gente è un po’ fuori e che una volta l’hanno chiamato per schiamazzi e ha trovato un nonno che stappava lo spumante per festeggiare il nipotino. Non mi ha fatto ridere.
Storie straniere
Pubblicato da Marcella De Carli
Ho deciso di aprire una nuova categoria alle “storie straniere”, ovvero a quei racconti di vita vera a dimostrazione di come la nostra sia già una società multietnica.
Chi legge il blog me li può continuare a mandare come commento a questo post, io provvederò a pubblicarli.
Grazie ancora a chi a voglia di condividere qualcosa di apparentemente semplice e banale, ma che di questi tempi diventa prezioso diffondere.